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Chi si ricorda com’era una gita in un museo o in una galleria d’arte anche solo negli anni ’90? D’accordo, era un’occasione per non fare lezione – cosa buona e giusta – ma poteva anche rivelarsi un’esperienza non molto coinvolgente.

Entrando in un museo oggi, ci si accorge subito che molto è cambiato e questo grazie anche alle tecnologie digitali. Succede perfino che lontano dai musei, in una stanza o in un centro commerciale, si possano ammirare tutti i capolavori di un artista senza che questi debbano abbandonare le proprie teche. Come? Grazie a quei percorsi immersivi digitali, chiamati con il nome dell’artista seguito dal termine experience.

Non mostre fisiche dunque, ma percorsi digitali che propongono esperienze sensoriali parlando un linguaggio contemporaneo. In Italia un’importante realtà che si occupa di questo prodotto culturale è la fiorentina Crossmedia Group. Da oltre tre anni produce e distribuisce le experience nel mondo con numeri considerevoli: 330.

000 visitatori paganti solo nel 2017.

Delle experience, ma anche del rapporto fra musei e tecnologie abbiamo parlato con Eike Schimdt, direttore del museo italiano più visitato, la Galleria degli Uffizi.

Innanzitutto, le experience presentano delle criticità per la cultura intesa in senso tradizionale? “Dipende dai casi. Il fenomeno di per sé non è né negativo né positivo: è un nuovo medium ideato sulla base delle tecnologie disponibili oggi”. Ma per quanto a noi contemporaneo, l’experience sembra riprendere un fenomeno popolare nell’Ottocento, ma poi scomparso: il museo delle copie. “Nel Nord Europa o in America i primi musei furono spesso di copie. Lì non avevano, per esempio, statue romane da esporre e quindi realizzavano duplicati in gesso. Si pensava che fosse meglio avere la copia di un grande capolavoro, che non l’originale di un’opera secondaria. Poi nel Novecento prevale l’idea che fosse meglio avere anche solo un frammento di un’opera, ma autentico e unico”.

Rispetto al museo delle copie, le experience presentano tuttavia una differenza sostanziale. “Spesso qui l’elemento tecnologico prevale sull’opera. E anche se quelle che ho visto io non presentavano scemenze ed erano paragonabili a un buon libro sull’artista, alcuni giochetti digitali li ho trovati inutili. Moltiplicare una statua e farla ballare mi pare un puro ornamento. È un gioco che fa sorridere all’inizio, ma poi risulta noioso”. D’altro canto è vero che grazie a questi percorsi “è possibile avere in una sola stanza le riproduzioni digitali di tutti i capolavori di un artista, operazione impensabile per qualsiasi museo”.

Sul valore divulgativo delle experience Schmidt non ha dubbi: “Nel momento in cui creano una primo approccio l’artista non c’è niente di male. Se la conoscenza si fermasse a questo, forse bisognerebbe preoccuparsi, ma non del percorso digitale, quanto piuttosto della nostra società”.

Aldilà delle experience, le tecnologie digitali sono entrate massicciamente nei musei di mezzo mondo. “Gli americani in questo hanno preceduto gli altri paesi di anni. Oggi l’interattività spesso non è affidata a dispositivi presenti nel museo, ma a quelli del pubblico, smartphone innanzitutto. La tecnologia evolve così velocemente che ciò che sembrava rivoluzionario anche solo dieci anni fa, ora è totalmente superato”.

Queste tecnologie non sono utili solo al visitatore, ma anche alle istituzioni museali. “Avere sui propri occhiali tutti i dati o una foto a raggi X di un’opera è di enorme valore e toglie un po’ di pressione dalla segnaletica museale. Spesso i musei oggi sembrano dei libri per la quantità di testo da leggere”.

E se le experience piacciono molto ai visitatori giovani è forse perché sta cambiando anche la richiesta da parte del pubblico dei musei. “Anche i musei dovrebbero proporre sempre di più esperienze che siano artistiche, educative e anche emotive”. E non occorre per questo ricorrere necessariamente al digitale. “Agli Uffizi, per esempio, nelle ultime esposizioni di Botticelli e Caravaggio abbiamo introdotto un nuovo tipo di vetro antiattacco e antiriflesso che non permette nessuna modificazione cromatica. Grazie a questo semplice accorgimento, i visitatori possono avere un’immediatezza dell’arte prima impensabile perché non era sicuro esporre un grande capolavoro senza un vetro protettivo. La gente sembra entrare nell’opera d’arte autentica e questo, secondo me, non sarebbe possibile attraverso nessuna tecnologia digitale”.

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Fonte: WIRED.it